Conferenza Regioni
e Province Autonome
Doc. Approvato - Documento su applicazione Codice Beni Culturali e Paesaggio

giovedì 3 marzo 2005


Documento sull’applicazione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. lgs. n. 42/2004) è un testo a cui possono essere addebitati o accreditati molti difetti o molti pregi. In ogni caso, è un evento che coinvolge per intero la responsabilità di governo delle istituzioni pubbliche territoriali e che le costringe a riconsiderare il loro ruolo ed a definire le prospettive ed i programmi di intervento. 

Le regioni, in applicazione del principio di leale collaborazione,  intendono  manifestare una prima ed impegnativa  posizione di disponibilità  propositiva nei confronti dello stato e degli altri enti. A questo fine, ritengono più produttivo soffermarsi  sulle esigenze di fondo poste oggi ai pubblici poteri dal patrimonio culturale e sulle linee che, in positivo, possono incardinare, ordinare ed avviare un processo di concludente collaborazione.   

 Il problema da affrontare  e  le responsabilità dei pubblici poteri;  un sistema  di governo  pluralista ed integrato è una necessità.

 La rilevanza del patrimonio culturale (oggi contemplato dall’art. 2, c. 1,  del Codice) nasce e si sviluppa in un primo arco di tempo,come noto, in riferimento  a due beni (il bene oggi “culturale,”, art. 2, c. 2; e quello oggi “paesaggistico”, art. 2, c. 3)  considerati separatamente (dalle due leggi  – senza andare troppo indietro –  n. 1089 e n. 1497 del 1939) ed identificati attraverso una funzione (un’esigenza di pubblico interesse) in sé omogenea, ma parziale (la tutela come mera individuazione-conservazione), a sua volta isolata da altri bisogni  e da altri interessi pubblici pur presenti nel contesto in cui il bene si colloca o di cui è palese forma espressiva: si pensi al paesaggio. Nel contempo l’accentramento politico ed amministrativo dell’assetto del  pubblico potere, riassunto  ed organizzato nello Stato, è ad un tempo causa ed effetto di quelle concezioni e delle loro traduzioni istituzionali.

 Con la Costituzione del 1948 (art. 9, sui beni paesaggistici e culturali come valori affidati alla Repubblica; art. 5 sulle autonomie locali, e  artt. 114 e seguenti); con  le esperienze maturate attraverso le prassi istituzionali e le politiche di intervento, ai vari livelli, centrale e locale; con l’evoluzione delle scienze, delle tecniche, dei canoni storici  e sociali di immaginazione, percezione ed individuazione del bene e del patrimonio culturale; con la moltiplicazione degli interessi, dei bisogni e delle opportunità sociali; con  la continua emersione dei loro reciproci intrecci e condizionamenti; e infine con la riforma del Titolo V, si innesca e progredisce un processo circolare che muove in senso opposto. La struttura pluralista dei poteri pubblici e la crescita civile e sociale  contribuiscono a scoprire ed a valorizzare la intrinseca dimensione “locale” come  complemento essenziale del patrimonio culturale. A sua volta, l’accrescimento degli aspetti di rilevanza del bene (non solo la tutela, ma la valorizzazione, la fruizione, ecc.)  legittima la pretesa ad una conformazione effettivamente pluralista dell’assetto (non più del potere pubblico, ma) dei pubblici poteri.  

  Di tutto questo vi sono, sul piano soggettivo, una  diffusa consapevolezza e, sul piano oggettivo, un’evidente riprova. La fase di emersione delle ragioni della complessità e dei suoi aspetti si può sostanzialmente ritenere, almeno per un suo ciclo, conclusa. Il patrimonio culturale  si è rivelato come un oggetto di (potenzialmente) illimitata consistenza e ricchezza e propone un altrettanto illimitato  bisogno di conoscenza, di classificazione, di catalogazione. Ma non vi è istituzione alcuna che possa pensare di farvi fronte da sola. Il pluralismo, dunque, non è più  un’opzione politica o giuridica,  è, innanzitutto e comunque, una necessità. Da qui si deve ripartire. Stato, regioni, enti locali,  hanno - oggi - il compito di prenderne definitivamente atto e di progettare e di praticare un livello ulteriore, delineando un’architettura  che sappia sollecitare, promuovere ed ordinare  l’iniziativa e l’inventiva  dei tanti protagonisti. E’ il momento, per i pubblici poteri, di creare un sistema  di governo e di amministrazione fondato sull’integrazione delle diversità, come già segnalato nel  documento approvato in vista della formazione del Codice (Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome, 8 maggio 2003), e dunque di trovare misure di unità non amputando ma valorizzando e portando  a compimento i vari aspetti di rilevanza  del patrimonio culturale alla luce della sua intrinseca ed unitaria “missione”: la realizzazione dell’uso pubblico, nelle sue anch’esse molteplici e differenti forme.

La situazione determinatasi a seguito del Codice: un’incertezza da risolvere rapidamente.

 Il Codice prende atto dell’esigenza di provvedere alla ricomposizione dei vari aspetti della rilevanza del bene. La conferma è nell’introduzione  della categoria di genere (il “patrimonio culturale”), nella previsione di principi ad essa relativi, nella precisazione  delle  funzioni concernenti il bene culturale e delle loro connessioni.

 Diversa  è la situazione per quanto riguarda l’assetto dei pubblici poteri e la distribuzione delle funzioni e delle competenze. Il Codice contiene  importanti prescrizioni, che, in termini generali, si fanno carico della presenza delle regioni e degli altri enti territoriali, a cominciare dall’art. 1. Ma vi è anche la conferma di uno schema, teorico ed operativo, che consolida una duplice preliminare separazione: la separazione concernente la tutela dei beni culturali, attraverso la prevalente intestazione allo stato, e quella concernente la valorizzazione, quando si tratta di beni statali. A queste riserve, si  aggiungono, a fini di bilanciamento, numerose previsioni che aprono a forme di accordo, di intesa, di cooperazione  fra stato, regioni, altri enti territoriali (in specie gli artt. 4 e 5, per la tutela e gli art. 102 e 112 per la fruizione e la valorizzazione).

 Il punto non risulta univocamente interpretabile, ma  è centrale, perché incide o può incidere sull’intero sistema. Ne può  derivare una linea tale da  far arretrare il faticoso percorso volto a cogliere la dimensione unitaria del bene culturale come oggetto di cura dei pubblici poteri e da determinare una tensione contraddittoria all’interno dello stesso Codice, che, in relazione all’altra specie di beni inquadrata nel patrimonio culturale, quella paesaggistica, presenta un impianto ben diverso. Oppure si possono elaborare e sviluppare quegli elementi che consentono di fare limitati ma essenziali passi avanti verso un sistema  realmente pluralista e perciò anche efficiente.

 Peraltro, la direzione da imboccare già  discende da quanto osservato e da quanto suggeriscono ulteriori specifici dati costituzionali. La Costituzione stessa, infatti,  registra  la  possibile inadeguatezza dello schema di ripartizione in via generale da essa medesima prescritto (l’esclusiva statale sulla tutela) dove prevede la possibilità di forme speciali di autonomia (art. 116, c.3) ed in particolare dove espressamente indica “forme di intesa e di coordinamento nella materia della  tutela dei beni culturali” (art. 118, c. 3). In realtà, dunque, i pubblici poteri sono tenuti ad adottare una  prospettiva capace di costruire un sistema pluralista ed integrato. 

Protagonisti,  strumenti e modi:  premesse generali

 I protagonisti naturali non possono che essere regioni ed enti locali. I soggetti portatori delle istanze di autonomia, per forza di cose (di coerenza e di credibilità), hanno  l’onere  di  promuovere e di attivare l’attività volta alla costruzione della trama di cui vi è bisogno.

 Quanto a strumenti e modi, dinanzi alle possibili non univoche versioni  del sistema desumibile dal Codice e  dinanzi ai rischi presenti pur nella  positiva novità  della varie figure di accordi (su cui subito sotto), vengono in evidenza due esigenze.

 La prima comporta la definizione di alcuni principi generali e di alcune invarianti dell’iniziativa regionale, per dare un primo contenuto alle linee con cui le regioni interpretano, in modo comune e coordinato, l’intero sistema ed il loro ruolo: una sorta di agile ma significativo codice di comportamento, pubblico ed impegnativo. Su questo e con questo saranno chiamate a confrontarsi le altre istituzioni ed in specie lo stato, che, in applicazione del principio di leale collaborazione, dovrà essere sollecitato, in modo costante e propositivo, a fare quanto di sua spettanza per completare il quadro delle condizioni istituzionali, normative e materiali che  occorrono per una attuazione corretta dell’intervento pubblico.  

 Una seconda esigenza riguarda l’utilizzazione delle forme convenzionali e di cooperazione. Accordi e intese hanno ormai da tempo cittadinanza in generale (si ricordi l’art. 15 legge n. 241/1990). Nel settore in esame finiscono per avere un ruolo essenziale per integrare, ricomporre, coordinare le funzioni ed il loro esercizio al di là della loro astratta ripartizione fra gli enti, come in più punti previsto dal  Codice (oltre alle norme già ricordate, si possono vedere gli artt. 17, 18, 29, 40, 103, 118, 119, 121).  Accordi, intese, forme di cooperazione, però, di per sé, automaticamente, non garantiscono il conseguimento di ciò che si vuole ottenere; possono anche prendere una direzione opposta e  trasformarsi in fattori di ulteriore frantumazione dell’intervento pubblico in misure contingenti, solitarie, meccaniche, prive di respiro e di strategie, e perciò più facilmente esposte a pressioni particolaristiche. E’ un esito da evitare. Il mezzo è la creazione di  un contesto, di una rete, in cui inserire  ed a cui agganciare  gli accordi. Questa condizione è in parte  certamente realizzata attraverso la individuazione e condivisione dei principi comuni di cui subito sopra, ma, per un’altra (e conseguente) parte, necessita di appositi criteri concernenti il ricorso alle forme consensuali ed i loro contenuti. 

Principi e modelli per l’intervento pubblico

 Adeguati principi generali comuni a cui dovrebbero ispirarsi la strutturazione ed i contenuti dell’intervento pubblico, a seconda delle varie competenze, sono sicuramente i seguenti: 

a) integrazione  del quadro istituzionale, attraverso una maggiore ricomposizione delle funzioni: per quanto possibile, l’esercizio delle funzioni e delle attività deve essere ricomposto in testa alle strutture più adeguate, per ragioni istituzionali, territoriali, tecniche, ecc.;

b) consapevolezza del carattere di “situità” del bene del patrimonio culturale e dunque valorizzazione della dimensione territoriale come ambito di riferimento dei progetti e di partecipazione alla definizione e realizzazione degli stessi, nonché di integrazione delle competenze;

c) essenzialità della funzione conoscitiva, in termini di individuazione dei dati rilevanti dal punto di vista della dimensione unitaria del bene culturale e del patrimonio culturale;

d) costituzione di forme di raccordo sistematico  con le Università e con le istituzioni di ricerca;

e) idoneità  tecnica del personale e delle strutture organizzative, quale che sia il tipo di funzione (tutela, valorizzazione, gestione, ecc.): il patrimonio culturale è  da sempre stato oggetto di un intervento pubblico organizzato attraverso strutture specialistiche, che anzi sono un contrassegno determinante del modello; la professionalità e l’autonomia tecnico-scientifica del personale addetto e dei tipi organizzativi con cui esso è strutturato (come già segnalato nel citato documento ella Conferenza dei Presidenti) costituiscono dunque un elemento che condiziona (nella realtà, prima ancora che dal punto di vista giuridico) sia il recupero della dimensione unitaria del bene culturale sia ogni possibilità di intervento;  si dovrà dunque procedere lungo la strada indicata dall’art. 115, c. 2, a proposito della gestione diretta, ed anzi trarne motivo per elaborare principi e regole di assicurare la qualità tecnico-scientifica dell’intervento pubblico in ogni suo segmento

f)  congruità fra  i livelli di governo  e di  amministrazione ed il contenuto della funzione e dell’interesse rappresentato:  si deve evitare di concentrare nella medesima istituzione o nella medesima entità organizzativa  compiti  fra loro intrinsecamente confliggenti; 

g) costruzione e programmazione dell’intervento, specie per quanto riguarda la gestione, su basi territoriali e tecnico-materiali adeguate;

h) valorizzazione dell’apporto dei privati, singoli e associati, il che significa anche elaborazione di regole e di strumenti in grado di conoscere e di verificare un sistema di intervento che assume la normalità di una presenza privata;   

i) determinazione delle garanzie di qualità dei soggetti che aspirano ad essere protagonisti della gestione indiretta: è un compito  di particolare rilievo per il legislatore regionale, anche per coerenza con quanto enunciato sopra sub h);

l) trasparenza e  verificabilità:  il tema riguarda le modalità di programmazione e di impiego delle risorse e la promozione di sistemi e di strumenti volti a favorire la conoscibilità, ad opera dell’opinione pubblica, dell’effettivo funzionamento del sistema, compresa la parte eventualmente impersonata dai privati, singoli o associati.

Partecipazione dei poteri regionali e locali alle attività di tutela

Per soddisfare le esigenze in precedenza enunciate l’esercizio di alcune funzioni in tema di tutela deve essere conferito alle  regioni. Lo spazio ed il rilievo attribuiti dal Codice  alla tutela tendono a condizionare  fortemente gli altri aspetti di rilevanza del bene culturale. Dunque, ulteriori spostamenti verso l’amministrazione regionale sono una condizione essenziale per impedire che, nei fatti, torni ad essere totalizzante una (pur nei principi rifiutata) logica della separazione-estraneità delle competenze e degli interessi pubblici. Occorre dunque passare all’applicazione di quanto disposto dagli articoli 4 e 5 del Codice.

 In particolare, si dovrà provvedere ad una specificazione:

a) dei possibili contenuti degli accordi e delle forme di coordinamento, anche  con specifico riferimento alla vigilanza (art. 18) ed alle ipotesi di intervento regionale;

b) degli elementi di collegamento con i profili e con le linee di intervento previste dal  Codice in relazione ai beni paesistici;

c) della partecipazione delle regioni e degli enti locali, con risorse proprie e con risorse dell’Unione europea, all’attività di conservazione e della loro conseguente legittimazione alla verifica dell’interesse dei beni culturali oggetto degli interventi conservativi; e ciò anche in riferimento all’art. 29 Cod.; 

d) delle modalità attraverso cui sono chiamati a cooperare gli enti locali;

e) del trasferimento di personale e di risorse finanziarie;

f) di clausole tipo in ordine alle possibilità di recesso, ai meccanismi (sanzionatori e procedurali) in funzione di  reciproca garanzia, ai tempi di esecuzione;

g) di criteri e regole tali da agevolare una tempestiva ed organica conoscibilità delle forme consensuali e, ancor prima, delle procedure e dei contatti a tal fine avviati.

Funzioni conoscitive: catalogo e sistemi informativi.

 La funzione conoscitiva è  non solo fondamentale (come detto), ma anche indivisibile. Essa non sopporta frantumazioni,  omissioni  o separazioni né in ragione dei  molteplici aspetti di rilevanza del bene culturale né in ragione del pluralismo delle istituzioni.  Le attività di catalogazione ed il catalogo, inteso come il luogo nel quale confluiscono le informazioni acquisite mediante l’attività di ricerca sui beni culturali e dove queste informazioni sono costantemente aggiornate ed elaborate, presuppongono perciò  un contesto ed un sistema unitario, quale che sia la loro (maggiore o minore)  incidenza in materia di tutela, di valorizzazione, di fruizione, ecc., e debbono essere concepite e predisposte come un indispensabile servizio (il “quadro conoscitivo”) per il coordinamento e l’integrazione degli interventi  statali, regionali e locali, oltre che come un elemento di  rilievo per la stessa iniziativa dei privati e per la definizione in concreto dei rapporti fra attività pubbliche ed attività private.

Oltre alle previsioni di cui all’art.17 del D.Lgs. 42/2004, la necessità dell’intervento regionale è espressamente prevista in materia di beni paesaggistici dall’art. 132 Cod. (Osservatorio nazionale ed osservatori regionali per la qualità del paesaggio), ma ciò è da considerare anche come riconoscimento di un’esigenza concernente tutto il patrimonio culturale, a ulteriore riprova della sua unitarietà.

 L’obiettivo di un sistema nazionale del catalogo fondato su cataloghi regionali, già indicato dall’accordo Stato-Regioni del 2001, deve essere dunque confermato ed attuato, utilizzando anche le nuove disposizioni del Codice, e ponendo attenzione alla necessità di uno strumento conoscitivo per l’insieme del patrimonio culturale.

Fruizione,  valorizzazione, gestione. 

 Fruizione e valorizzazione sono attribuite alla competenza statale e regionale. La valorizzazione, peraltro, segue anch’essa, per una parte, il principio della separazione, in linea con gli enunciati della corte Costituzionale (sent. n. 26/2004).

 E’ evidente la necessità di forme di ricomposizione e di integrazione, da realizzare attraverso accordi e intese che il Codice stesso, in specie agli artt. 102 e 112, provvede ad indicare, anzi a rendere in qualche modo sostanzialmente doverose (art. 112, c. 5). Di questi accordi possono essere parti lo stato, le regioni, gli altri enti territoriali, ed anche i privati, cosicché vengono ancor più in luce i rischi e le esigenze segnalate.

  In particolare, si debbono perciò:

a) preliminarmente definire i criteri generali e le procedure previste dal c. 6 dell’art. 112, il che  consentirà di predeterminare modi e forme di integrazione con i privati, in applicazione di uno dei più  generali principi in precedenza elencati;

b)  progettare, programmare e specificare, mediante apposite previsioni ed anche con graduazione temporale, quei trasferimenti che, ai sensi dell’art. 102, in relazione alle condizioni reali di  singoli “istituti e luoghi di cultura”, consentano integrazioni proficue dal punto di vista della funzione essenziale ed unitaria del bene culturale, che è la sua destinazione all’uso pubblico.

 Separata attenzione meritano gli accordi in punto di gestione, di cui all’art. 115, c. 7, anch’essi da considerare nel complesso del  quadro di collaborazione con lo Stato.

Conclusioni.

In ragione di quanto sopra esposto, le regioni chiedono al Ministero l’apertura di un tavolo di lavoro,  sul modello di quello a suo tempo attivato per la definizione degli standard per i musei ai sensi  del comma 6 dell’Art. 150 del Dlgs. 112/98, al  fine di definire regole e standard condivisi  fra lo Stato e le Autonomie, in materia di tutela dei beni culturali, di catalogazione,  ai quali improntare l’esercizio delle funzioni eventualmente assegnate, tramite accordi o intese, al sistema delle Autonomie. E’ ugualmente urgente avviare un confronto sull’attuazione delle previsioni di cui all’Art. 102 del D.lgs 42/2004, relativo al trasferimento della disponibilità di istituti e luoghi della cultura, dallo Stato al sistema degli enti locali

Il confronto fra Stato e regioni in sede centrale non potrà tuttavia prescindere,  laddove possibile e opportuno, dalla sperimentazione, nelle singole realtà regionali, di concreti percorsi operativi  in ambito regionale. Le regioni sono infatti, in relazione alle loro competenze ed al ruolo ad esse complessivamente spettante, il soggetto istituzionale in grado di garantire da un lato la promozione ed il coordinamento delle iniziative e, dall’altro,  effettive misure di indirizzo e di governo, capaci di evitare la frammentazione e la sterilità delle singole esperienze. E’ questa la strada da percorrere per perseguire l’obiettivo della costruzione di un sistema nazionale di governo dei beni e del patrimonio culturale,  costituito da  sistemi regionali.    

Roma, 3 marzo 2005