Conferenza Regioni
e Province Autonome
Doc. Approvato - PRINCIPI FONDAMENTALI IN MATERIA DI GOVERNO DEL TERRITORIO

giovedì 9 febbraio 2006


PARERE SULLO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO DI RICOGNIZIONE DEI PRINCIPI FONDAMENTALI IN MATERIA DI GOVERNO DEL TERRITORIO A NORMA DELL’ARTICOLO 1 DELLA LEGGE

 5 GIUGNO 2003, N. 131

 

Punto 5) Odg Conferenza Stato-Regioni

 

 

Premessa

 

La legge  5 giugno 2003, n. 131 all’art.1, comma 4, delega il Governo ad adottare entro 3 anni dall’entrata in vigore della legge medesima, specifici decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali presenti nella legislazione statale vigente nelle materie a legislazione concorrente previste dal 3° comma dell’art. 117 della Costituzione, tra le quali è inserito il “Governo del territorio”.

 

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 280/2004, ha precisato che i decreti legislativi di ricognizione dei principi fissati dalla legislazione statale, nelle materie a legislazione concorrente, devono riguardare solo i “nuclei essenziali del contenuto normativo che quelle disposizioni esprimono per i principi enunciati o da esse desumibili” ed avere quindi un “livello di maggiore astrattezza” rispetto alle regole positivamente stabilite dal legislatore.

E’ evidente che la pronuncia ha minimizzato l’efficacia dei decreti di ricognizione, i quali non si sostituiscono alle norme già vigenti, costituendo solo “un quadro di primo orientamento destinato ad agevolare, contribuendo al superamento di possibili dubbi interpretativi, il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza peraltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali, dal momento che il comma 3 dello stesso art. 1 ribadisce che le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato, ‘o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti’”.

 

A tal proposito assume rilevanza anche la sentenza della Corte Costituzionale 196/2004  in materia di condono edilizio, dove è precisato che la legislazione statale deve soltanto determinare “alcuni limitati contenuti di principio”.

 

 

Sulla base delle premesse di cui sopra, il decreto legislativo dovrebbe contenere esclusivamente disposizioni sui principi fondamentali nelle materie concernenti il  governo del territorio e non riprodurre sistematicamente i testi normativi in vigore.

 

Viceversa le disposizioni del decreto limitano pesantemente la sfera normativa regionale, elevando a principi fondamentali normative di dettaglio e procedimentali, peraltro datate e  ormai già in gran parte superate dalle leggi regionali emanate negli anni più recenti, soprattutto in materia di strumenti urbanistici generali ed attuativi, nonché in materia edilizia, su alcune delle quali si è espressa già conformemente la Corte Costituzionale.

 

E’ evidente, poi,  che il varo, come “principi fondamentali”, delle norme contenute nell’attuale versione  del Decreto, comporterebbe un forte contenzioso sia  con riferimento alle leggi regionali sia con riferimento all’evidente vizio di eccesso di delega del testo in esame per contrasto con il disposto del comma 4 dell’art.1 della Legge 131/2003,  con evidenti ricadute in termini di certezza del diritto nella materia. E questo aggraverebbe di molto le già consistenti difficoltà del “governo del territorio” in Italia.

 

 

Dall’insieme dell’articolato emerge inoltre una visione “riduttiva” del governo del territorio che non tiene conto della sua complessità, in quanto esso dovrebbe ricomprendere politiche determinanti in materia di tutela, valorizzazione e infrastrutturazione del territorio, quali quelle ecologico-ambientali, agricole e di insediamento delle attività produttive. Una accezione quindi di governo del territorio quale funzione pubblica di regolazione del territorio che persegua l’integrazione e l’armonizzazione dell’insieme degli interessi pubblici che concorrono alla definizione delle tutele, degli usi e delle trasformazioni dello stesso. In tal senso si è peraltro pronunciata la Corte Costituzionale nelle sentenze 307/2003 e 196/2004.

 

Infine nelle disposizioni generali non è stata inserita la salvaguardia delle competenze esclusive proprie delle regioni a statuto speciale e delle province autonome così come previsto dall’art.11 della L.131/2003

 

Con riferimento al metodo seguito si sottolinea che la legge delega n.131/2003 prevede che lo schema di decreto in esame sia sottoposto per ben due volte al parere della Conferenza Stato-Regioni: prima dell’invio da parte del Governo alle Commissioni parlamentari per acquisire il loro parere e dopo l’acquisizione di tale parere e l’apporto di eventuali modifiche da parte del Governo stesso. La previsione del doppio passaggio in Conferenza Stato-Regioni evidenzia la necessità di un serrato confronto istituzionale, che ad oggi è totalmente mancato, e che appare quanto mai opportuno anche per coordinare le diverse iniziative legislative,  governative e parlamentari, in corso di approvazione .

 

Questo primo esame da parte delle Regioni avviene, infatti, contestualmente all’invio dello schema di decreto legislativo con una ristrettezza di tempi che non ha consentito un adeguato confronto tra i diversi livelli di Governo,  imprescindibile per compiere una puntuale ricognizione dei principi fondamentali. Pertanto è indispensabile che detto confronto si svolga prima del secondo passaggio in Conferenza Stato-Regioni.

 

 

In conclusione, per tutte le considerazioni fin qui espresse, le regioni esprimono un giudizio fortemente negativo sullo schema di decreto legislativo in oggetto.

 

 

Si formulano inoltre alcune preliminari osservazioni con riferimento al Capo I (Disposizioni generali), al Capo II (Urbanistica), al Capo III (Edilizia), al Capo IV ( Edilizia residenziale pubblica) e al Capo V (Lavori pubblici) dello schema di decreto legislativo.

 

 

Capo I (Disposizioni generali)

 

La nozione di “Governo del territorio” introdotta nel 2001 dall’art.117, terzo comma, della Costituzione, non è esplicitamente presente nella legislazione nazionale vigente. In questa prospettiva l’”ambito di applicazione” del “Governo del territorio” individuato dallo schema di Decreto (art.1) è riduttivo dal momento che non ricomprende una serie di contenuti essenziali per il governo del territorio come ad esempio la difesa del suolo, la tutela dei beni paesaggistici e naturalistici e la promozione del paesaggio, nonché la cura degli interessi pubblici collegati a tali contenuti.

Lo stesso ddl sul Governo del Territorio, approvato dalla Camera dei Deputati , ricomprende oltre l’urbanistica e l’edilizia le materie “difesa del suolo”, “grandi reti infrastrutturali”. Viceversa lo schema di decreto comprende nel Governo del territorio impropriamente anche se riferito ai soli aspetti collegati all’assetto del territorio, l’edilizia residenziale pubblica che è materia di competenza esclusiva delle Regioni.

 

 

Capo II (Urbanistica)

 

Il Capo II dedicato all’”Urbanistica” è articolato in sette Sezioni per un complesso di 22 articoli: Sezione I: Disposizioni generali; Sezione II: La pianificazione territoriale di coordinamento e intercomunale ; Sezione III: La Pianificazione comunale; Sezione IV: La pianificazione attuativa; Sezione V: Programmi pluriennali di attuazione e misure di salvaguardia; Sezione VI: Programmi innovativi, recupero degli insediamenti abusivi, localizzazione delle opere di interesse statale, armonizzazione della pianificazione di settore; Sezione VII: Programmazione, pianificazione ed attuazione degli interventi con procedure consensuali e forme sussidiarie pubblico-privato.

 

Già dalla articolazione del Capo II e, ancor più, dalla sua consistenza  è evidente che non può trattarsi di una legge di soli principi fondamentali; per di più l’articolato, per contenuti e per lessico non evidenzia detti principi, lasciandoli in qualche modo sottintesi, ne più ne meno di quanto non avvenga nei testi di legge vigenti. In sostanza il Decreto viene meno al suo fondamentale compito di enucleare i “principi fondamentali”, configurandosi più come “testo unico” che come “legge di principi”.

 

 

A motivazione di questo giudizio si evidenzia quanto segue.

Nella Sezione I dedicata alle Disposizioni generali, l’art.4 definisce il “Principio della pianificazione”. Ci si aspetterebbe che l’articolo precisasse appunto alcuni principi: che tutto il territorio è sottoposto ad una disciplina urbanistica; che la disciplina urbanistica si definisce con legge o nel processo di pianificazione territoriale ed urbanistica; che la pianificazione territoriale ed urbanistica è componente imprescindibile del “governo del territorio”; che la pianificazione è un processo che si articola in tre tipi di piano: piano territoriale di coordinamento, piano urbanistico generale, piano urbanistico esecutivo, ciascuno dei quali con specifica finalità nel processo di pianificazione ed efficacia sulla proprietà privata; che la formazione dei piani è di competenza primaria, secondo i casi, della regione, delle province, del comune; che la formazione dei piani deve assicurare la partecipazione dei cittadini e dei proprietari e garantire l’equità di trattamento; etc. Invece l’articolo recita: “ La disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani territoriali, dei piani regolatori comunali e sulle norme sull’attività costruttiva edilizia…” come se la definizione dei principi fondamentali relativi alla pianificazione si potesse ridurre alla descrizione dei contenuti dei suoi strumenti e cioè dei piani, cui per altro lo schema dedica le successive tre sezioni e cioè la II, la III e la IV. 

 

Queste Sezioni, costituite da più articoli, affrontano tutti i temi che riguardano i diversi strumenti (in alcuni casi chiamati “piani”, in altri “strumenti”) e cioè i contenuti tecnici, procedure, effetti, rapporto pubblico-privato. Ma proprio perché di questi temi non sono stati solo evidenziati i principi fondamentali da rispettare nella legislazione regionale, risulta fortemente ridotta, quasi annullata, la competenza legislativa regionale in materia.

 

In particolare:

  • all’art. 5 la norma disciplina nel dettaglio i piani territoriali di coordinamento provinciali, senza prevederne il necessario coordinamento con gli strumenti di programmazione territoriali regionali, configurandoli quali strumenti di mero indirizzo e direttiva; in sostanza, la norma delinea i PTCP sulla falsariga della legge 1150/42, prefigurando un istituto che la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 378/2000, ha ritenuto superato in quanto piani soltanto di direttive, non comportanti nessuna prescrizione;
  • sempre all’art. 5 si stabilisce che è la Provincia a fissare il perimetro di “ogni singolo piano di coordinamento” e ciò non consentirebbe alle regioni di stabilire che il Piano territoriale di coordinamento provinciale possa essere esteso all’intero territorio della provincia. La norma di fatto limita in modo significativo la potestà legislativa regionale; l’articolo contiene in generale norme eccessivamente di dettaglio sui contenuti dei piani territoriali di coordinamento delle Province e tra queste alcune previsioni dei piani territoriali che invece dovrebbero essere di esclusiva competenza dei piani regolatori comunali (sedi dei nuovi nuclei edilizi; le diverse destinazioni del territorio);inoltre sono previste norme in materia di istituzione di parchi o riserve naturali per le quali la competenza dovrebbe essere regionale;
  • all’art. 8, i commi 3 e 4 riproducono alla lettera e nel dettaglio la normativa statale esistente in materia di piano urbanistico generale (PRG) e di standard. Con ciò, norme che oggi sono oggetto di regolamentazione amministrativa (decreti ministeriali, etc.) rischiano di assumere valore di legge, limitando la potestà legislativa regionale che peraltro è già intervenuta in materia;
  • all’art.9 dedicato alla “Approvazione ed efficacia dello strumento urbanistico generale comunale” (PRG) non si fa alcun cenno agli effetti conformativi della proprietà del PRG, cioè alla principale funzione del piano che è quella, tra l’altro, che motiva la necessità di norme relative alle procedure di formazione e di approvazione, alla salvaguardia ed alla revisione del piano;
  • nella Sezione IV, gli articoli 10, 11, 12 e 13 (Pianificazione attuativa) le disposizioni riproducono con contenuto estremamente di dettaglio, il testo normativo di leggi nazionali in vigore peraltro differenziando le normative per i “piani particolareggiati di esecuzione”, altri “piani urbanistici attuativi del piano regolatore generale” e i “piani di lottizzazione convenzionata”; già ampliamente disciplinate dalle leggi regionali;
  • il Piano di lottizzazione convenzionata (art.12) non è ricompreso tra i piani urbanistici attuativi del PRG (Art.10, comma 3). Peraltro l’art.12 parla solo della Convenzione, dei suoi contenuti, della sua approvazione; quanto al contenuto tecnico del piano non dice nulla (si parla di “lottizzazione” o di “progetto di lottizzazione”);
  • infine il contenuto dell’articolo 17 non costituisce certamente norma di principio in quanto la disposizione si riferisce ad un provvedimento di carattere straordinario (il condono edilizio) per il quale la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 196/04, ha precisato che in materia lo Stato può definire soltanto limitati principi fondamentali.
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    Le Sezioni V, VI e VII confermano pesantemente il carattere di “testo unico” dello Schema. In materia di programmi pluriennali, di misure di salvaguardia, di localizzazione di opere di interesse statale e, infine di programmi integrati, di recupero urbano e di Società di trasformazione urbana (STU) lo schema ripropone pressoché alla lettera la legislazione statale in vigore e non ne individua i “principi fondamentali” cui dovrebbero ispirarsi le leggi regionali.

     

    Capo III (Edilizia)

     

    Gli articoli dal 23 al 56 riproducono sostanzialmente tutta la disciplina contenuta nel D.P.R. 380/2001 con disposizioni di dettaglio e procedurali inerenti gli interventi edilizi, i titoli abilitativi, il contributo di costruzione, le agibilità che sono state ormai abbondantemente disciplinate dalle norme regionali, determinando ricadute negative sui procedimenti edilizi e generando forti contenziosi. Inoltre in materia di costruzioni in zona sismica non viene richiamata la legge 741/81 che consente alle Regioni di attivare sistemi di controllo a campione anziché ricorrere all’autorizzazione preventiva per ogni progetto.

     

     

    Capo IV (Edilizia Residenziale pubblica)

     

    A seguito del mutato assetto istituzionale, intervenuto dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione, la materia è attribuita alle Regioni, le quali, quindi, possono esercitare in merito una piena potestà legislativa.

    Infatti, la circostanza che l’edilizia residenziale pubblica non sia espressamente menzionata tra le materie elencate dal nuovo art. 117 della Costituzione, fa concludere che la stessa fosse riconducibile alla piena competenza residuale delle Regioni.

    In quest’ottica, dunque, e con tale convinzione si è già operato, adottando leggi regionali, peraltro non impugnate dallo Stato e ormai vigenti, che prevedono discipline organiche e delineano autonomamente la programmazione degli interventi nel settore, tenendo conto delle particolari esigenze dettate dalle specifiche realtà territoriali e dal fabbisogno abitativo di ciascuna Regione.

    Lo schema di decreto pretende invece di ricondurre al Governo del territorio le scelte fondamentali e di principio dell’edilizia residenziale pubblica, contraddicendo quanto fin qui sostenuto anche dall’amministrazione statale che si è comportata, dopo la modifica del Titolo V, come se non fosse più competente in materia

     

    Tuttavia, quand’anche si volesse ritenere condivisibile la diversa interpretazione fornita dallo schema di decreto in esame, ricomprendendo la materia nel più ampio alveo del “Governo del territorio”, e, quindi, nell’ambito della legislazione concorrente, il relativo intervento normativo dello Stato deve limitarsi alla fissazione dei principi di carattere generale e soprattutto alla messa a disposizione di risorse finanziarie, escludendo provvedimenti di dettaglio e regolamentari.

     

    Ciò non emerge, invece, dall’esame del Capo IV del decreto legislativo, contenente la ricognizione delle disposizioni statali considerate fondamentali in materia.

    Le norme individuate, infatti, non possono sicuramente costituire il compendio dei principi sui quali fondare l’intervento statale nel settore, dal momento che disciplinano, perlopiù, aspetti specifici, particolari e procedurali, attinenti a competenze tecniche e gestionali e riguardanti anche i profili di natura urbanistico-edilizia.

    Tali risultano, ad esempio:

    ·        l’art 61, che fissa le caratteristiche tecniche degli edifici e delle abitazioni fruenti del contributo dello Stato;

    ·        l’art. 62, che individua i soggetti istituzionali tenuti alla redazione dei piani di zona;

    ·        l’art. 64 che stabilisce i criteri di scelta delle aree;

    ·        l’art. 65, che descrive l’iter del procedimento di approvazione del piano di zona;

    ·        gli articoli da 67 a 69, dedicati alle modalità e procedure per la localizzazione degli interventi.

     

    Si ritiene, invece, che l’attività dello Stato, come indicato dal comma 2 dell’art117 della Costituzione, debba esplicarsi in iniziative che consentano di assicurare, su tutto il territorio nazionale, uguali prestazioni minime riguardanti i diritti civili e sociali essenziali, tra i quali rientra sicuramente il diritto all’abitazione, riservando ogni altro aspetto programmatorio e gestionale alla potestà legislativa delle Regioni. In questo contesto rientra, altresì, un costante impegno finanziario dello Stato che consenta di sostenere il rilancio di una politica organica in materia, costruita d’intesa con le Regioni e nel rispetto della loro autonomia.

     

    Pertanto, nell’esprimere un giudizio comunque negativo sugli articoli del capo IV, si ritiene che possano essere considerati i principi fondamentali esclusivamente alcuni punti tra quelli citati all’art. 57, comma 2, e ricompresi tra le funzioni statali già individuate dall’art.59 del decreto legislativo n.112/98 .

    Tali funzioni riguardano:

    ·        la determinazione dei principi e delle finalità di carattere generale ed unitario in materia di edilizia residenziale pubblica;

    ·        la definizione dei livelli minimi del servizio abitativo;

    ·        il concorso, unitamente alle Regioni ed agli altri enti locali interessati, all’elaborazione di programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale,

    ·        la definizione dei criteri per favorire l’accesso al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e agli interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito.

     

     

     

    Capo V (Lavori Pubblici)

     

    Come indicato all’art. 1, comma 2, dello schema di decreto legislativo, nell’ambito del “Governo del Territorio” rientrano, per quanto attiene agli aspetti strettamente collegati all’assetto del territorio, anche la disciplina in materia di lavori pubblici.

    Dalla lettura del testo si rileva che vengono considerati principi fondamentali tutte le norme della legge n. 109/94 ad eccezione di quelle relative alla disciplina degli organismi statali (artt. 4 – 5 – 6) e degli incentivi per la progettazione (art. 18).

     

    Le Regioni, nell’esprimere grave preoccupazione per le implicazioni che il testo potrà avere sull’esercizio della propria potestà legislativa, si dichiarano nettamente contrari allo schema di decreto legislativo proposto per i motivi di seguito indicati.

     

    Preliminarmente, sul piano del metodo, si stigmatizza l’assenza di un confronto con le Regioni in sede di stesura del capo V dello schema di decreto legislativo, in controtendenza rispetto ad una consolidata prassi partecipativa già sperimentata in occasione dell’emanazione di precedenti normative nazionali.

     

    Quanto al merito, il testo in esame considera principi fondamentali dei lavori pubblici la quasi totalità delle norme della legge Merloni, con la conseguenza di condizionare pesantemente la potestà legislativa delle Regioni, cui non rimarrebbe altra possibilità che emanare residue, insignificanti norme di dettaglio.

     

    Infatti, e a solo titolo di esempio, non si comprende come possa essere considerato principio fondamentale l’intero art. 14 della legge n. 109/94, relativo alla programmazione dei lavori pubblici, laddove questa è strettamente connessa con la più ampia attività di programmazione regionale; allo stesso modo, non è un principio fondamentale l’intero art. 16 della legge Merloni, relativo all’attività di progettazione, in quanto mal si concilierebbe con le peculiari istanze territoriali ed ambientali di ciascuna regione; ugualmente, non è un principio fondamentale l’art. 17 della legge n. 104/94, relativo all’effettuazione delle attività di progettazione, direzione lavori e accessori, poiché si pone in stretta correlazione con il precedente art. 16, relativo alla progettazione, e al successivo art. 18, relativo agli incentivi e spese per la progettazione, peraltro già escluso dal novero dei principi fondamentali; finanche gli artt. 19, relativo ai sistemi di realizzazione dei lavori pubblici, 20, relativo alle procedure di scelta del contraente, e 21, relativo ai criteri di aggiudicazione, sono principi fondamentali solo nella parte in cui stabiliscono norme a tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato, non essendo precluso alle Regioni disciplinare altre e nuove forme di affidamento, recependo le indicazioni contenute delle direttive UE 17 e 18/2004; per l’art. 25, relativo alle varianti in corso d’opera, vale il medesimo assunto fatto per l’art. 16.  

     

    Il comma 3 dell’art. 71 dello schema di decreto legislativo suscita gravi perplessità, in quanto configurerebbe un eccesso di delega, non limitandosi alla mera ricognizione dei principi fondamentali.

    Infatti, nell’individuare le norme della legge n. 109/94 che costituiscono principi fondamentali e nel richiamare le norme regolamentari statali di attuazione delle stesse, le ascrive alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

    Ciò perchè l’art. 117, comm 6, della Costituzione circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di competenza esclusiva.

    Dall’eccesso di delega scaturirebbe un vizio di incostituzionalità anche in considerazione del fatto che il comma 5 dell’art. 1 della legge n. 131/2003, che estendeva la delega alla individuazione delle disposizioni rientranti nella competenza legislativa esclusiva statale, è già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 280/2004.

     

    In conclusione, nella competenza esclusiva dello Stato dovrebbero rientrare soltanto le norme poste a tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato, mentre alla potestà legislativa concorrente delle Regioni dovrebbe essere affidata tutta la restante disciplina dei lavori pubblici in un quadro normativo di riferimento segnato dal recepimento della Direttiva della UE n. 17/2004.  

    Capo IV (Espropriazioni per p.u.)

     

    Con riferimento al complesso delle disposizioni del d.p.r. 327/2001, il T.U. delle norme in materia di espropriazione per pubblica utilità, i contenuti dello schema di decreto non sono condivisibili sia sul piano metodologico che su quello sostanziale.

    E ciò per i seguenti motivi.

     

    1) In primo luogo, data la natura eterogenea delle norme contenute nel T.U. espropri, si dubita della stessa possibilità che possa essere esercitata un’attività meramente ricognitiva di principi fondamentali della materia espropriativa.

     

    A tale proposito è opportuno rilevare che se da un lato è certamente vero che l’espropriazione assume i connotati di una disciplina strumentale e complementare a singole e diverse materie (urbanistica, lavori pubblici, difesa, beni culturali, ecc.), apprestando a queste uno degli elementi necessari al raggiungimento degli obbiettivi di volta in volta perseguiti, e nello stesso tempo, sul piano della competenza legislativa, subendo una forza attrattiva dalla materia alla quale è asservita, è altresì indubbio che inquadrare l’espropriazione semplicemente come attività strumentale ad altre materie sarebbe erroneamente riduttivo.

     

    Difatti, l’intervento normativo in un determinato settore non può essere sempre catalogato in maniera netta come disciplina di una materia, bensì come governo di un certo numero di interessi, i quali possono travalicare i rigidi schemi posti da una classificazione per materie.

     

    In altri termini, per rimanere nell’ambito dell’espropriazione, è evidente come tale istituto regoli aspetti essenziali che non possono dirsi ricompresi esclusivamente nelle materie dell’urbanistica o dei lavori pubblici, primo fra tutti quello della tutela del diritto di proprietà e del grado di incidenza che sullo stesso debbano esercitare, in un determinato momento storico, i concetti costituzionali di funzione sociale e di  indennizzo.

    Sicchè la disciplina dell’espropriazione è anche l’espressione dell’interesse dello Stato alla regolamentazione di un ambito primario, rimesso alla propria potestà legislativa esclusiva, come quello dei rapporti tra proprietà privata e potere ablativo, al fine di assicurare quella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.(art. 117 Cost, 2° comma, lett. m).  

    Ed è indubbio che tra i diritti civili e sociali, il cui grado di tutela spetta allo Stato assicurare uniformemente su tutto il territorio nazionale, un posto primario debba essere attribuito al diritto di proprietà.

     

    Pertanto, nell’ambito del Testo Unico espropriazioni convivono norme di natura, funzione e gerarchia eterogenee; alcune, quali quelle in materia giurisdizionale e fiscale, ovvero quelle che disciplinano i criteri di determinazione dell’indennità espropriativa nonchè le modalità ed i limiti di imposizione dei vincoli alla proprietà, sono da considerarsi espressione di una potestà legislativa esclusiva dello Stato, e pertanto sottratte al potere legislativo regionale; altre, quali (alcune tra) quelle legislative, possono esprimere i principi fondamentali dell’istituto espropriativo, e pertanto definiscono il limite entro il quale possa esplicarsi il potere legislativo regionale; altre ancora, sia di livello legislativo che di livello regolamentare, a cui può essere attribuita la funzione di disciplinare la materia sino a quando non intervenga una diversa legge regionale.

     

    Ciò posto, è evidente che l’individuazione dei principi fondamentali della materia espropriativa enucleabili da un coacervo di norme aventi natura e funzione così eterogenea, non possa in alcun modo prescindere da una valutazione cui sarebbe impossibile non attribuire funzione interpretativa di ogni singola disposizione.

     

    In altri termini, dato il carattere assolutamente trasversale dell’impianto normativo del T.U., non di mera ricognizione si tratterebbe, bensì di valutazione, in relazione ad ogni singola disposizione del medesimo T.U., del grado di espressione degli ambiti normativi attribuibili alla competenza esclusiva dello Stato ovvero a quella concorrente delle Regioni.

    Si darebbe in tal modo ingresso a quell’attività interpretativa, orientata da “considerazioni prioritarie”, prevista dai commi 5 e 6 dell’art. 1 della legge 131/2001 dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale, in grado di alterare del tutto il carattere meramente ricognitivo dell’attività delegata al Governo in favore di forme di attività di tipo selettivo non ammesse. 

     

    2) In ogni caso, pur ammettendo che il Governo possa esercitare la propria delega sull’impianto normativo del T.U., non può non rilevarsi una seconda evidente patologia metodologica.

     

    Essa deriva dal tentativo di desumere i principi fondamentali della materia espropriativa, e quindi i limiti della potestà legislativa regionale, da norme di rango regolamentare.

     

    Occorre infatti rilevare che, ai sensi dell'art. 117 Cost. “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

    Il che conferma la natura assolutamente non vincolante che può essere attribuita alla norme regolamentari in materia espropriativa, le quali potranno avere un'applicazione solo provvisoria in ambito regionale, e tanto ai sensi della disposizione dell'art. 20, comma 2, della legge n. 59/1997, così come modificato dall'art. 1, comma 4, lettera a), della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi), secondo la quale “nelle materie di cui all'art. 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima'.

     

    Ciò posto, a prescindere dal merito e dal contenuto delle norme, risultano del tutto errate le qualificazioni come principi fondamentali delle seguenti disposizioni di livello regolamentare: artt. 23, 4° - 24, 5° e 6° - 26 – 27 – 28 – 30 – 31 - 39, 2° - 47, 2° - 49, 4° - 50, 2° - 51, 2° .

     

     

     

     

    Roma, 9 febbraio 2006