Conferenza Regioni
e Province Autonome
Doc. Approvato - Parte II Costituzione: prospettive di riforma, valutazioni giuridiche

giovedì 24 marzo 2011


in allegato il documento in formato pdf

CONFERENZA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME

11/037/CR6d/C1

Prospettive di riforma relative alle ipotesi di modifica della parte seconda della Costituzione

Il presente documento è redatto con la finalità di fornire alcune valutazioni, di carattere strettamente giuridico, sulle prospettive di riforma costituzionale per definire una posizione da rappresentare al Parlamento. Nel corso della scorsa legislatura era stata avviata un’ampia riflessione sulle iniziative necessarie a portare a compimento il disegno di riforma avviato nel 2001, nell’ambito della quale la Conferenza delle Regioni condivise alcuni punti essenziali, preceduti da una riflessione generale di contesto, che proponeva "un accordo di consultazione preventiva", e l’abbandono della logica delle decisioni separate, proponendo un metodo di condivisione stabile tra Stato e Regioni, inteso come determinazione ex ante delle principali linee di intervento, nell’interesse stesso dell’efficacia delle iniziative da intraprendere.

Forse oggi, ancor più che in passato, sarebbe necessaria una premessa metodologica da condividere con lo Stato, alla quale subordinare l’avvio di qualsiasi riflessione, sulla base del rilievo che le riforme costituzionali richiedono larga condivisione e larghe intese.

Non va sottovalutato, al riguardo, che le difficoltà incontrate nel percorso di attuazione della riforma del Titolo V non sono tanto la conseguenza di disfunzioni del modello costituzionale, quanto di disfunzioni attinenti alle caratteristiche e agli equilibri del nostro sistema politico.

In ogni caso, qualsiasi riforma costituzionale dovrà essere attentamente valutata verificandone la reale necessità e concentrando l’attenzione sulle modifiche imprescindibili, rifuggendo da una prospettiva di riscrittura di ampie parti del testo costituzionale che in una fase, come quella attuale, rischierebbero di pregiudicare gli equilibri necessari a portare compimento il percorso del federalismo.

Del resto, anche il più recente dibattito scientifico ha messo in luce la necessità di abbandonare l’idea della "grande riforma" e, al contrario, la necessità di confermare l’impianto di fondo della Costituzione, della quale va riconosciuto appieno il valore, non solo in chiave storica. Questo implica la necessità di una "manutenzione" della Costituzione, che si concentri sugli snodi davvero essenziali.

I nodi dell’assetto costituzionale e i problemi irrisolti

A distanza di ormai dieci anni dall’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, le Regioni, nell’ottica di esprimersi nuovamente in una indagine parlamentare sul tema delle prospettive di riforma costituzionale, non possono, da un lato, non richiamare gli snodi essenziali del sistema costituzionale, così come costantemente individuati dalla Conferenza, e dall’altro non constatare come la maggior parte di essi attenda ancora una positiva soluzione.

La recente manovra economica, il cammino, sempre più faticoso e disarticolato, delle norme che dovrebbero fungere da nuova cornice istituzionale dell’ordinamento nel suo complesso, ormai frammentate in una pluralità di testi normativi in diverso grado di maturazione e spesso in contraddizione tra di loro, allontanano sempre più la concreta realizzabilità dei perni essenziali del sistema costituzionale, costantemente individuati dalla Conferenza:

a) nell’istituzione del Senato federale e nella conseguente rivisitazione e potenziamento del sistema delle conferenze e degli strumenti della leale collaborazione, quali gli accordi e le intese;

b) nella realizzazione di un federalismo fiscale compiuto basato su responsabilità e autonomia, coerente e strettamente connesso ai poteri legislativi regionali.

L’attuazione della riforma costituzionale, prospettata dalla Conferenza, sembra ormai compromessa dalle dinamiche emergenziali che finiscono per condizionare la vista stessa delle istituzioni.

È in questo nuovo contesto che trova conferma, in molte sue parti, il documento della Conferenza dell’ottobre 2006, sia sotto il profilo dei contenuti sia dei principi enunciati.

Quanto ai due temi di fondo posti dall’audizione – Senato federale e riparto di competenze legislative – le Regioni assunsero fin da allora una posizione molto esplicita, che intendono ancora ribadire, pur tenendo conto del mutato contesto istituzionale di riferimento.

Istituzione del Senato federale e superamento del bicameralismo perfetto

Da parte delle Regioni resta confermato che

la istituzione di una Camera delle autonomie (o Senato federale) deve essere uno degli obiettivi principali, a breve termine, soprattutto se si considera che è rimasta totalmente priva di attuazione la norma che prevede la integrazione con rappresentanti delle autonomie territoriali della Commissione parlamentare per le questioni regionali (articolo 11 della L. Cost. 3/2001).

Si tratta, infatti, di una prerogativa fondamentale che garantisce alle Regioni e alle Province Autonome e alle Autonomie un intervento diretto nell’iter di formazione delle leggi statali.

È una sede, questa, diversa e ben distinta da quella nella quale si attua il rapporto tra esecutivi quali sono attualmente la Conferenza Unificata e la Conferenza Stato-Regioni, per le quali i Presidenti richiamano la necessità di un rafforzamento mediante la sostanziale costituzionalizzazione. Si può richiamare, al riguardo, il disegno di legge costituzionale approvato nel 2006 (c.d. devolution).

Nell’ottica prioritaria e non rinviabile di dare compiuta attuazione alla revisione del Titolo V della Costituzione, si ritiene necessaria l’immediata integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali, ai sensi dell’art. 11, l. cost. 3/2001, non per frenare l’attivazione del Senato delle Regioni, ma quale modello sperimentale – a Costituzione invariata - di partecipazione "diretta" regionale nell’iter di formazione delle leggi statali.

L’immediata attuazione dell’art. 11, l. cost. 3/2001 deve procedere parallelamente all’iter, più articolato, di revisione costituzionale per la trasformazione del Senato in Senato delle Regioni: l’entrata a regime del Senato delle Regioni, considerati i tempi previsti dalle più recenti iniziative di revisione costituzionale, potrebbe richiedere tempi non brevi da utilizzare validamente per "testare" gli effetti del funzionamento della cd. "bicameralina" e innestare progressivamente questo nuovo organo nel tessuto costituzionale.

In relazione alla composizione del Senato federale, i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome ribadiscono la posizione costantemente espressa dalla Conferenza; confermano la convinzione che la migliore soluzione sia quella prevista dal modello tedesco, che consentirebbe l’introduzione del

vincolo di mandato per i suoi componenti, presupposto essenziale per la effettiva rappresentanza dei territori. Anche in presenza di una proposta di diverso segno, quale è stata la bozza Violante, i Presidenti hanno sempre ribadito la convinzione di fondo della necessaria presenza dei Presidenti, quali membri di pieno diritto.

Del resto, la previsione di un sistema di rappresentanza delle istituzioni regionali (più che dei rispettivi elettorati) appare condizione necessaria per garantire al nuovo Senato quella forza ed autorevolezza indispensabili ad assolvere la funzione di perno fondamentale tra unità nazionale ed impianto federale dell’ordinamento. A questo stesso scopo, occorre riflettere attentamente sulle

specifiche funzioni che dovranno essere assegnate al nuovo Senato federale, evitando la logica, sinora seguita, di costruirle "per sottrazione" rispetto a quelle della Camera. La differenziazione delle funzioni tra le due Camere non deve quindi condurre ad un declassamento della collocazione costituzionale e della natura politica della seconda Camera.

È in questa prospettiva che si può procedere ad una

revisione del bicameralismo perfetto, tenendo conto dell’esigenza di snellire le procedure legislative, evitando sovrapposizioni di ruoli ma garantendo al contempo al Senato federale un insieme di prerogative tali da assicurarne la effettiva partecipazione alla elaborazione delle scelte fondamentali della Repubblica. In questo senso la riforma del bicameralismo è la principale integrazione di cui il Titolo V abbisogna per dar vita ad un federalismo ben temperato.

Allo stesso tempo, le Regioni, nel ribadire l’importanza della istituzione del Senato federale non possono non tener conto dell’evidente marginalizzazione che in questo momento sta vivendo il Parlamento quale sede di negoziazione politica e di decisione istituzionale, dovuta non solo al cattivo funzionamento delle istituzioni parlamentari (complicazione, lunghezza ed inutilità di molte procedure; eccessiva pletoricità delle assemblee etc..) ma anche ad altri fattori, tra i quali, in particolare, un evidente

sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri legislativi tra Governo e Parlamento.

In questo senso, ci si riferisce, in particolare, ai fenomeni, particolarmente accentuati nelle ultime legislature, dell’uso abnorme della decretazione d’urgenza, del ricorso pervasivo alla questione di fiducia che viene a privare il Parlamento di ogni capacità di intervento sui testi legislativi ed, infine, al ricorso massiccio alle ordinanze di necessità di urgenza che consente al Governo di disciplinare con fonti normative, del tutto estranee al circuito parlamentare e allo stesso vaglio del Presidente della Repubblica, vitali settori di amministrazione che coinvolgono interessi primari del Paese.

È evidente che, in mancanza di misure in grado di ridimensionare questi fenomeni e a restituire al Parlamento la sua centralità, qualsiasi riforma volta ad assicurare alle Regioni una rappresentanza all’interno del Parlamento risulterebbe assai depotenziata. Per questo motivo, si ritiene che il progetto di riforma costituzionale volto all’istituzione del Senato federale, dovrebbe essere accompagnato, se non anticipato, da riforme ordinarie (sia di legislazione ordinaria che dei regolamenti parlamentari) relative alle modalità di esercizio del potere normativo da parte del Governo e del Parlamento, pur senza dimenticare l’esigenza della governabilità, cioè della capacità di assumere decisioni in tempo ragionevole, garantendo così l’efficacia dell’azione di governo.

In questa stessa direzione della riqualificazione dell’istituzione parlamentare, vanno senz’altro accolte con favore le iniziative volte a ridurre drasticamente il

numero dei parlamentari.

Composizione Senato delle Regioni

Quanto alla composizione del Senato delle Regioni, la preferenza regionale si è sempre orientata per un modello che ricalcasse la composizione del

Bundesrat tedesco. Tale preferenza non è venuta meno e tuttora si insiste sulla validità di tale modello.

Su questa ipotesi, tuttavia, ad oggi non vi è stata una sufficiente convergenza a livello parlamentare; i più recenti progetti maturati a livello parlamentare hanno prospettato modelli diversi: a) il modello della cd. "devolution", ovvero quello del testo costituzionale, non confermato con il referendum del Giugno 2006, che prevede l’elezione diretta dei Senatori tra gli elettori residenti nella Regione di riferimento o titolari di cariche, in quanto eletti nel rispettivo ambito regionale; b) il modello della cd. "bozza Violante" del 2007, con rappresentanza regionale indiretta, eletta dai Consigli regionali e dai Consigli delle autonomie locali.

Al di là del modello che il legislatore statale intenderà adottare, si ritengono comunque

imprescindibili due punti:

1. i Presidenti di Regione devono poter far parte del Senato, quali membri di diritto, in rappresentanza delle rispettive istituzioni regionali;

2. nella determinazione della quota di rappresentanti spettanti a ciascuna Regione in Senato occorre tener conto anche del criterio di proporzionalità rispetto alla popolazione residente/votante, al fine di evitare possibili squilibri di rappresentatività territoriale

(squilibri cui la Conferenza delle Regioni chiese di ovviare in sede di audizione sulla cd Bozza Violante).

Funzioni del Senato delle Regioni

Con riguardo alle funzioni che il Senato delle Regioni sarebbe chiamato ad esercitare, sembrano potersi fissare, anche alla luce delle esperienze e degli sviluppi politico-istituzionali successivi alla riforma del Titolo V, i seguenti punti:

1. con riguardo all’attività legislativa, il Senato delle Regioni, tra le altre prerogative, dovrebbe ricoprire un ruolo forte nella determinazione dei principi fondamentali in materie di competenza concorrente;

2. ruolo altrettanto forte dovrebbe ricoprire in ordine alle decisioni fondamentali di finanza pubblica ex l. 196/2009.

Si tenga presente che l’art. 11, c. 2, della l. cost. 3/2001 prevede un aggravio dell’iter parlamentare proprio per il caso in cui la Commissione integrata di cui al comma 1 abbia espresso parere negativo su di un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e all'articolo 119 della Costituzione. Ciò a conferma dell’esigenza che la definizione di principi fondamentali in materia legislativa e di decisioni fondamentali in materia di finanza pubblica veda la partecipazione, con poteri significativi, di un’istanza rappresentativa delle Regioni anche a livello di formazione delle leggi. In questo senso il Senato delle Regioni potrebbe contribuire all’effettiva riduzione del contenzioso costituzionale fra potere centrale e Regioni determinato dalla incertezza del confine tra i due livelli di legislazione.

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Seconda Camera e sistema delle garanzie.

L’introduzione della Camera delle Regioni dovrebbe accompagnarsi ad una revisione del sistema delle garanzie

In primo luogo si dovrà modificare il procedimento di revisione costituzionale in modo da riconoscere un ruolo significativo alla Seconda Camera: le leggi costituzionali e di revisione costituzionale dovrebbero approvarsi col consenso necessario di quest’ultima. È tipico, infatti, dei sistemi federali coinvolgere, direttamente o indirettamente, le autonomie territoriali nel processo di riforma della Costituzione: poiché questa è un patto, un

foedus tra le entità federate, occorre l’accordo delle entità federate per modificare i termini del patto.

In secondo luogo si dovrà attribuire alla Seconda Camera il potere di ricorrere direttamente alla Corte costituzionale in caso di violazione delle sue competenze legislative, ricorso che potrà essere proposto sia contro le deliberazioni della Camera dei deputati, sia contro gli atti governativi con forza di legge (la cui adozione dovrà essere circoscritta alle sole materie di competenza esclusiva).

In terzo luogo occorre riconoscere alla Seconda Camera il potere di designare un numero congruo di giudici costituzionali. Nei sistemi federali (e regionali) una buona parte delle funzioni esercitate dai tribunali costituzionali attengono al rispetto dei riparti di competenza tra livelli di governo: occorre, pertanto, che nella composizione dei collegi giudicanti sia ben presente la sensibilità per le istanze autonomistiche.

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Il numero dei rappresentanti per regione.

Una questione di rilievo è stabilire se accogliere o no il principio dell’uguale rappresentanza delle regioni in seno alla Seconda Camera.

Molti ritengono che un’applicazione coerente del principio federale esigerebbe il suo accoglimento, attribuendo a ciascun’entità federata un numero eguale di senatori, senza tenere conto delle differenti dimensioni demografiche. Com’è noto, il caso paradigmatico è costituito – ancora una volta – dal sistema nordamericano, che assegna due senatori a ciascuno stato membro: la California, che ha oltre 35 milioni di abitanti, esprime lo stesso numero di senatori del Maine, la cui popolazione invece non arriva a 1 un milione e 500.000.

È noto che questa distorsione rappresentativa caratteristica del Senato americano fu un punto fondamentale di accordo tra

Federalisti e Antifederalisti, una concessione fatta alle posizioni di questi ultimi affinché fosse possibile l’adozione della costituzione federale. Difatti è il retaggio di una logica di tipo confederale, secondo cui gli stati membri sono entità politiche originariamente indipendenti e sovrane. Al momento attuale questa distorsione rappresentativa è accettata per la forza d’inerzia esercitata dallo status quo: è più facile conservare le tradizioni esistenti che introdurne di nuove. E tra l’altro, come già si è detto, non è tanto vero che veicoli nel sistema federale le istanze della rappresentanza territoriale.

Peraltro, introdurre

ex novo nel contesto costituzionale italiano la regola dell’eguale rappresentanza delle regioni si scontrerebbe fatalmente contro obiezioni insuperabili. Soprattutto sarebbe messa seriamente in discussione la legittimità democratica di una rappresentanza territoriale così congegnata, specialmente nella misura in cui pretendesse di operare come organo di co-legislazione alla pari della rappresentanza politica generale.

Dunque è più opportuno e realistico adottare un criterio che attribuisca alle regioni un numero variabile di senatori, in rapporto al numero degli abitanti, come nel caso del sistema tedesco, dove ciascun

Land ha almeno tre rappresentanti (e quindi tre voti), ma i Länder con più di due milioni di abitanti ne hanno quattro, e quelli con più di sei milioni ne hanno cinque. Come si vede, non si applica un principio di rigorosa proporzionalità e i Länder più piccoli sono sicuramente sovrarappresentati rispetto a quelli più grandi: ciò nondimeno si riconosce alle autonomie territoriali più popolose un peso politico maggiore.

Senato delle Regioni e Conferenza delle Regioni

La creazione del Senato delle Regioni non dovrà comportare il venir meno del ruolo della Conferenza Stato-Regioni.

Il Senato delle Regioni dovrebbe rappresentare il luogo privilegiato del raccordo relativo all’attività legislativa. La Conferenza dovrebbe invece costituire il luogo privilegiato del raccordo intergovernativo. Del resto, la complementarietà del ruolo dei due organi di rappresentanza al centro degli interessi delle autonomie e, quindi, la compresenza degli stessi è stata immaginata sia nel progetto scaturito in sede di Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (XIII legislatura) sia dalla legge costituzionale di riforma del 2006, non confermata dal referendum ex art. 138 Cost..

Appaiono anzi maturi i tempi per dare nuovo slancio all’organismo nato in un contesto istituzionale profondamente diverso da quello attuale (basti pensare che la sua nascita è antecedente alle leggi Bassanini) e che ha soltanto in parte potuto far fronte alla esigenza di costituire un luogo di raccordo con il Governo centrale. Il processo di costituzionalizzazione e istituzionalizzazione dello stesso risponderebbe a questa esigenza.

La Conferenza dovrebbe essere la sede di attivazione di processi di co-decisione nelle materie riservate all’intervento dello Stato, ma nelle quali sono direttamente coinvolti gli interessi degli enti territoriali, offrendo ai loro rappresentanti una sede istituzionale in cui far valere le proprie esigenze.

Ciò non significa che la Conferenza Stato-Regioni debba senz’altro essere collocata, anche strutturalmente, presso il Governo, soprattutto dopo il nuovo Titolo V. Dottrina e giurisprudenza hanno già sottolineato il ruolo significativo a cui assolve la Conferenza: "

Un primo punto dovrebbe consistere nello "scardinare" o quantomeno allentare la collocazione della Conferenza Stato-Regioni presso il Governo, al fine di costituirla come organo istituzionalmente autonomo, con una propria sede, esplicitamente investito della funzione di rappresentanza territoriale. L’idea espressa dalla Corte costituzionale nella sent. 116/1994, per cui la Conferenza non è un organo "né del governo, né dei territori" bensì "della comunità nazionale" appare ancor più valida dopo la riforma costituzionale del 2001: prendendo sul serio il "nuovo" art. 114, si potrebbe anche dire che essa è un organo "della Repubblica" e non di uno o dell’altro dei suoi "componenti". Esprime il momento dell’unità, della cooperazione "paritaria", non quello della subordinazione politica".

Si tratterebbe di ridare impulso e nuovo sviluppo ad un’idea già maturata nella citata "Bicamerale " e in parte ripresa dalla riforma del 2006 ove fu ipotizzata l’istituzione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni

come organismo a rilevanza costituzionale, con compiti di coordinamento tra gli organi di governo dei vari enti territoriali costitutivi della Repubblica.

Il riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni

Il secondo tema di fondo, cui è dedicata l’audizione, attiene al

riparto delle competenze legislative. Per la verità, la formulazione del quesito lascia chiaramente intendere la volontà di procedere verso una revisione del catalogo di materie di competenza legislativa regionale, nel senso di una ricollocazione in capo allo Stato di materie ora ascritte alla competenza concorrente. Ora, che sia responsabilità dell’elenco troppo lungo delle materie attribuite alle regioni la causa del disordine è senz’altro dubbio e non può trovare il consenso delle Regioni; non è il modello di riparto delle competenze a risultare inadeguato, inadeguata è apparsa invece la sua applicazione. Questa, del resto, è la linea da sempre sostenuta dalle Regioni, persuase della validità dell’attuale impianto costituzionale, e convinte piuttosto che occorra una sua più fedele attuazione, a cominciare dalla corretta individuazione di nuovi principi fondamentali, per consentire il pieno esplicarsi della potestà legislativa regionale. Il legislatore statale non solo ha disatteso tale esigenza ma ha prodotto costantemente una legislazione statale invasiva, con la ricentralizzazione massiccia e sistematica di funzioni, che ha alterato completamente l’equilibrio delle competenze nel nostro sistema multilivello. Non è nell’elenco delle materie che va cercata la causa della difficoltà complessiva di governo del sistema. Se anche fosse vero che le materie assegnate alla competenza delle Regioni sono troppe, ugualmente non sarebbe nella loro riduzione la soluzione al problema della funzionalità del sistema. Le Regioni hanno sempre reclamato l’importanza dei meccanismi di implementazione della riforma come unica prospettiva di efficacia del modello; e infatti le complesse situazioni di governance, cui le stesse sono state chiamate a far fronte, hanno dimostrato che in presenza di meccanismi adeguati e reali di leale collaborazione il modello costituzionale tiene ed è in grado di fornire adeguate risposte. In questa direzione, non a caso, ha sempre spinto la giurisprudenza della Corte Costituzionale, specie quella formatasi nel periodo di prima applicazione della riforma costituzionale. Nel ribadire ancora oggi questa posizione, le Regioni sono consapevoli della convinzione diffusa da più parti, anche nel dibattito scientifico, di riportare alla competenza del legislatore statale alcune materie oggi oggetto di competenza concorrente, nonché di introdurre una clausola di supremazia che consenta allo Stato di intervenire a presidio dell’unitarietà dell’ordinamento, derogando all’ordinario riparto delle competenze. Tuttavia, è evidente che tale clausola di supremazia rischierebbe di diventare un grimaldello del centralismo se non venisse attivata prevedendo come necessaria la partecipazione e la garanzia di un Senato federale, in grado di rappresentare le comunità territoriali; così come la riduzione dell’elenco di materie di  competenza regionale non adeguatamente contestualizzata, rischierebbe di tradursi in un arretramento nell’attuazione dell’ordinamento federale.

Più che una revisione del catalogo di materie di competenza delle Regioni, occorre una più fedele attuazione del vigente impianto costituzionale , a partire dalla corretta individuazione dei principi fondamentali nelle materie a potestà legislativa ripartita (art. 117, terzo comma, Cost.), rispetto alle quali alle Regioni spetta la disciplina di dettaglio.

Il legislatore statale pur dopo l’approvazione della riforma del 2001, infatti, non si è limitato a definire norme di principio e - con previsioni anche di estremo dettaglio - si è spinto a incidere l’autonomia regionale, adducendo frequentemente non meglio specificate esigenze di uniformità di disciplina/standard da garantire su tutto il territorio nazionale, invadendo di fatto gli ambiti di competenza delle Regioni, con centralizzazione sistematica di funzioni e compromissione sostanziale dell’equilibrio di competenze del vigente sistema multilivello.

E’stata in sostanza disattesa la ratio della legge che doveva adeguare l’ordinamento al nuovo Titolo V della Costituzione (l. 131/2003), nella parte in cui prospettava l’approvazione in Parlamento di leggi per la definizione dei nuovi principi fondamentali, nelle materie concorrenti.

Si ritiene pertanto fondamentale procedere, da parte dello Stato, all’approvazione di leggi di principio nelle materie di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., previa concertazione con le Regioni (per l’individuazione dei principi) nelle sedi esistenti: a tal fine occorre adottare meccanismi che rafforzino il raccordo inter-istituzionale, rendendo più incisivi i relativi strumenti attuativi (ad esempio: potenziare gli strumenti dell’intesa e dell’accordo, in modo da renderli sempre più giuridicamente vincolanti e far sì che, se disattesi, possa intervenire la controparte, in via sostitutiva, a ripristinare le condizioni pattuite).

Il rafforzamento (anche tramite costituzionalizzazione) della Conferenza Stato-Regioni e del relativo "sistema degli accordi inter-istituzionali", l’attivazione immediata della bicameralina allargata e la trasformazione del Senato in un effettivo Senato delle Regioni rappresentano i passi fondamentali per completare il disegno di riassetto istituzionale avviato con la l. Cost. 3 del 2001 e per ovviare ai noti difetti di funzionamento del sistema.

Il ruolo del parlamento nazionale nei processi di formazione ed attuazione del diritto dell’unione europea

Con riferimento al quesito (A.4.1. del questionario) se sia ipotizzabile il riconoscimento al c.d. Senato Federale di alcune specifiche funzioni in materia di politiche comunitarie, si osserva quanto segue.

Dopo la riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, i rapporti tra ordinamento nazionale e regionale, da una parte, e ordinamento dell’Unione europea, dall’altra, sono attualmente disciplinati nell’art. 117 Cost.

Il comma primo prevede che la potestà legislativa venga esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Il comma secondo attribuisce alla potestà legislazione esclusiva dello Stato i rapporti con l'Unione europea. Il comma terzo attribuisce invece alla potestà legislativa delle Regioni i rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni. Il comma quinto dispone che le Regioni, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

Il quadro costituzionale sopra sinteticamente delineato non tiene conto della recente entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Questo ha introdotto nel Trattato sull’Unione europea (TUE), al titolo II "Disposizioni relative ai principi democratici", un nuovo art. 12 che illustra il ruolo dei Parlamenti nazionali nel contesto europeo. La norma richiamata prevede che i parlamenti nazionali contribuiscano attivamente al buon funzionamento dell’Unione attraverso vari strumenti messi in campo dalle istituzioni comunitarie: essendo informati e ricevendo i progetti di atti legislativi dell'Unione in conformità del Protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'Unione europea; vigilando sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo le procedure previste dal protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità; partecipando, nell'ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ai meccanismi di valutazione ai fini dell'attuazione delle politiche dell'Unione in tale settore, in conformità dell'articolo 70 del TFUE, ed essendo associati al controllo politico di Europol e alla valutazione delle attività di Eurojust, in conformità degli articoli 88 e 85 di detto trattato; partecipando alle procedure di revisione dei trattati in conformità dell'articolo 48 del trattato; venendo informati delle domande di adesione all'Unione in conformità dell'articolo 49 del trattato; partecipando alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il Parlamento europeo in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'Unione europea.

Tra le funzioni riconosciute in capo ai parlamenti nazionali ve ne sono alcune che sembrano presupporre un esercizio congiunto da parte delle due Camere (così, ad esempio, la partecipazione alle procedure di revisione dei Trattati e la partecipazione alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il parlamento europeo).

Vi sono altre funzioni, invece, in relazione alle quali si potrebbe ipotizzare un esercizio disgiunto da parte delle due Camere oppure l’attribuzione di funzioni ad una soltanto di esse (ad es. il controllo di sussidiarietà).

Alla luce delle osservazioni sopra formulate, sulla base dell’elenco di funzioni spettanti ai Parlamenti nazionali, ai sensi del Trattato di Lisbona, si potrebbe suggerire per il Parlamento italiano un modello di riferimento di carattere misto, di seguito ipotizzato. Tale modello muove dal presupposto di un’evoluzione in senso federale del nostro ordinamento costituzionale, e dalla sostituzione del Senato della Repubblica con il Senato federale o con la Camera delle Autonomie.

Potrebbe continuare a prevedersi un esercizio congiunto della funzione legislativa in materia di rapporti dello Stato con l’Unione europea, di disciplina nelle procedure per la partecipazione alla fase discendente del diritto comunitario dello Stato e delle Regioni, e per l’esercizio del potere statale sostitutivo nei confronti delle Regioni (art. 117, comma 5 cost.).

L’esercizio congiunto della potestà legislativa potrebbe avere luogo secondo due possibili modalità alternative.

Una prima proposta da valutare potrebbe essere quella di confermare il modello «bicamerale paritario», ovvero il modello attualmente previsto dalla nostra Carta costituzionale, che richiede che i due rami del Parlamento esaminino, in successive letture, il progetto di legge e lo approvino nel medesimo testo (tale proposta si ispira a quella contenuta nella bozza "Violante", DDL Camera n. 553 XV Legislatura, che, non a caso, conserva il termine nella norma che sostituisce l’art. 70, l’avverbio « collettivamente» in essa presente).

Una seconda proposta potrebbe essere la seguente: il progetto di legge è esaminato e approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati. La Camera delle autonomie, alla quale è trasmesso il testo approvato, su richiesta di un quinto dei suoi componenti può esaminarlo e modificarlo. Ove la Camera delle Autonomie apporti delle modifiche, esse hanno un valore per dir così «rinforzato»: la Camera dei Deputati – alla quale spetta il compito di pronunciarsi su tali modifiche in via definitiva – può infatti discostarsi da quantola Camera delle autonomie ha deliberato solo votando a maggioranza assoluta dei propri componenti.

Potrebbe invece prevedersi riconoscimento di una sfera di competenza autonoma alla sola Camera rappresentativa delle autonomie territoriali per l’esercizio di ulteriori funzioni di tipo legislativo, per quanto riguarda l’individuazione dei principi fondamentali nella materia concorrente relativa ai rapporti delle regioni con l’Unione europea (art. 117, comma 3 cost.).

Quanto all’esercizio del controllo di sussidiarietà, previsto dal Protocollo II, del Trattato di Lisbona, sugli atti provenienti dall’Unione Europea, esso dovrebbe spettare alla Camera delle autonomie ove si assuma la violazione di interessi regionali, e alla Camera dei Deputati ove si assuma la violazione di interessi statali. L’unità della posizione italiana potrebbe essere garantita da forme di raccordo tra le due Camere, che assicurino l’unità della posizione italiana nei confronti delle istituzioni dell’Unione.

Con riferimento alla fase ascendente della formazione del diritto dell’Unione europea, si potrebbe verificare l’opportunità di prevedere, già nel testo costituzionale anziché nella legge di procedure, che ciascuna delle due Camere vi concorra, e abbia diritto a ricevere dal Governo l’informazione necessaria. In questo caso, come si è detto con riferimento al controllo di sussidiarietà, la Camera delle Autonomie si attiverebbe con riferimento ad atti che incidono su "interessi regionali", la Camera dei deputati si attiverebbe ad atti che incidono su "interessi statali". L’unità della posizione italiana potrebbe essere garantita da forme di raccordo tra le due Camere.

Con riferimento alla fase discendente dell’attuazione del diritto dell’Unione europea, nelle materie che appartengono alla competenza statale esclusiva, e nelle materie concorrenti, limitatamente alla fissazione dei principi fondamentali, si potrebbe prevedere che la legge comunitaria annuale e le altre leggi statali di attuazione di direttive comunitarie vengano adottate attribuendo la potestà legislativa ad entrambe Camere secondo uno dei due modelli sopra descritti.

Osservazioni sui modelli stranieri di riferimento per l’istituzione del Senato Federale (o Camera delle Autonomie)

La composizione della seconda camera nel modello tedesco

L’assetto costituzionale tedesco rappresenta sicuramente il più interessante per una valutazione comparativa. Esso presenta una seconda Camera i cui membri vengono designati dagli esecutivi regionali, opzione, questa, differente rispetto all’elezione a suffragio universale e diretto, nonché alla nomina "indiretta" da parte dei consigli regionali.

Nel sistema italiano, caratterizzato dal forte peso dei partiti e dalla presenza di un vincolo fiduciario tra esecutivo e legislativo, l’applicazione di questi due ultimi modelli potrebbe comportare la prevalenza degli indirizzi del partito nazionale di appartenenza a discapito di un’effettiva rappresentanza delle istanze territoriali.

Questa considerazione depone a favore del modello tedesco, che se da un lato delinea una seconda Camera più debole sotto il profilo della legittimazione democratica, dall’altro assicura una positiva corrispondenza tra gli interessi territoriali perseguiti dagli organi regionali e quelli dei senatori componenti la seconda camera.

La Costituzione tedesca prevede l’attribuzione alle Regioni, in seno alla seconda Camera, di un numero variabile di senatori in rapporto al numero degli abitanti; a ciascun Land infatti spettano almeno 3 rappresentanti, quattro ai Lander con più di due milioni di abitanti, cinque a quelli con più di sei milioni.

Tale soluzione non applica un criterio di rigida proporzionalità, ma è volta a conferire comunque un maggior peso politico alle Regioni con popolazione più numerosa.

La seconda Camera nel contesto dell’U.E.

La differenziazione dei ruoli delle due Camere si realizza ritagliando per il Senato federale un ruolo più specializzato che, oltre a raccordare con il livello regionale la funzione legislativa dello Stato, lo proietta in un ambito sovranazionale (principalmente con riferimento all’U.E.).

La proposta di valorizzare il ruolo del Parlamento per l’attuazione delle politiche comunitarie risponde agli obiettivi del Trattato di Lisbona, che riconosce un ruolo più importante e penetrante ai Parlamenti nazionali per un migliore funzionamento dell’UE.

Sotto l’aspetto della partecipazione alla fase ascendente del diritto dell’U.E, un modello di riferimento per la partecipazione alla formazione degli atti normativi comunitari è rappresentato dalla c.d. Camera dell’Europa prevista dall’art. 52, comma 3a, della Costituzione tedesca.

La Camera dell’Europa è un’articolazione interna del Senato tedesco, le cui deliberazioni valgono come deliberazioni del

Bundesrat e i suoi componenti sono membri dello stesso Bundesrat designati su delega di ogni Land.

Questo organismo, quale organismo specializzato per le questioni relative all’Unione europea, è stato istituito con lo scopo di rendere più effettiva la partecipazione alla fase ascendente e consentire l’assunzione di deliberazioni in tempi rapidi specie nei casi d’urgenza, considerato che se tali questioni venissero affidate al

Bundesrat - il quale decide nel suo plenum e si riunisce in un numero limitato di sedute annuali - si allungherebbero di molto i tempi per addivenire alla definizione della posizione nazionale in ambito comunitario.

La riforma del modello tedesco.

La Costituzione tedesca (

Grundgesetz – G.G.) è stata oggetto in tempi recenti di un intervento di riforma del federalismo, da cui non si può prescindere nel momento in cui si guardi ad un "modello tedesco", pur non trattandosi specificamente di una revisione del bicameralismo sotto il profilo della struttura degli organi del potere legislativo (le due Camere: il Bundestag, vale a dire la Camera federale eletta dai cittadini; il Bundesrat vale a dire la seconda Camera o Senato federale, non eletta a suffragio universale diretto ma dai governi dei singoli Lander), bensì in punto di procedimento legislativo.

La riforma costituzionale tedesca ha realizzato una

deminutio dell’intervento legislativo del Bundesrat, per l’esigenza di ridurre il potere di veto delle Regioni nei confronti del programma del Governo federale, e nel complesso ha inteso rendere più precisa e chiara la ripartizione delle materie.

Il bicameralismo tedesco imperfetto prevede l’approvazione da parte del

Bundesrat delle leggi solo nelle materie seguenti:

- responsabilità dello stato (materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 74 G.G.);

- retribuzione e trattamento previdenziale degli impiegati pubblici che si trovano in un rapporto di servizio e di diritto pubblico (materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 74a G.G.);

- stato giuridico del personale al servizio della Federazione e degli enti di diritto pubblico direttamente dipendenti dalla Federazione, nei limiti di cui all’art. 74 a comma 3 (materia di legislazione esclusiva della Federazione ai sensi dell’art. 73 G.G.).

In altri termini, solo nei casi appena riportati avremo una legge dello Stato approvata da entrambe le Camere, vale a dire anche dal Senato; mentre di norma, come recita l’art. 77 "Procedura legislativa", le leggi federali sono approvate dal Bundestag.

Successivamente, dopo la loro approvazione, le leggi federali sono trasmesse senza indugio al

Bundesrat che può richiedere la convocazione di una commissione composta da membri del Bundestag e del Bundesrat, per un esame in comune dei testi. Qualora la commissione proponga una modifica del testo di legge adottato, il Bundestag deve pronunciarsi nuovamente.

Per quanto concerne il

riparto delle competenze legislative, la novellata Costituzione tedesca presenta un elenco di materie di competenza esclusiva della Federazione - "Bund" - (art. 73 GG) e un elenco di materie di competenza "concorrente" (art. 74 GG) della Federazione e delle Regioni - "Lander".

Accanto, in via residuale, vi è lo spazio della legislazione

esclusiva dei Lander, posto che questi hanno diritto di legiferare in tutte le materie che non sono espressamente riservate alla Federazione (art. 70 comma 1).

Sulle materie ricadenti nella legislazione cosiddetta

"concorrente", ai sensi della Legge fondamentale tedesca, i Lander possono legiferare soltanto qualora non esista in tal senso un’azione del Bund, avendosi una disciplina della potestà concorrente diversa dalla omonima "concorrente" italiana, che si sostanzia invece in una normazione statale di principio ed una regionale di dettaglio.

In questo peculiare tipo di potestà legislativa, il

Bund ha il diritto di legiferare (art. 72 c. II) quando e nella misura in cui la realizzazione di equivalenti condizioni di vita nel territorio federale o la tutela dell’unità giuridica o economica nell’interesse dello Stato nel suo complesso rendano necessaria una disciplina legislativa federale.

Con riferimento alla legislazione concorrente, la recente riforma ha sottratto a tale "clausola di necessità" alcune materie quali il diritto penale, il diritto civile, il diritto del lavoro, e quello previdenziale. Ne consegue che in questi ambiti non sussiste più in capo alla Federazione l’onere di dimostrare che il suo intervento normativo risulti necessario per realizzare condizioni di vita equivalente nel territorio federale.

La riforma costituzionale tedesca ha abrogato l’art. 75 GG, e con esso l’istituto denominato

"legislazione quadro", che dava luogo al susseguirsi di due procedimenti legislativi (l’uno sul piano federale, l’altro su quello di ciascun Land), fatto che rendeva il sistema inefficiente, tra l’altro, in riferimento all’attuazione del diritto comunitario. Tali leggi quadro, di norma comportavano che la Federazione adottasse disposizioni di principio, alle quali i Lander dovevano dare seguito emanando le necessarie leggi di integrazione entro un termine ragionevole fissato dalla stessa legge quadro federale. Le materie ricadenti in tale tipo di competenza sono state attratte in parte alla legislazione esclusiva federale, in parte alla legislazione concorrente e in parte alla legislazione esclusiva dei Lander.

A tale ultimo riguardo, il nuovo art. 72, comma 3, G..G., prevede in capo ai Lander la potestà legislativa in deroga nel caso in cui il

Bund approvi una propria legge nelle nuove materie di legislazione concorrente derivanti dalla soppressione della norma relativa alla legislazione quadro.

Leale collaborazione e sussidiarietà nell’attuale contesto istituzionale

La traduzione operativa dell’equiordinazione tra i livelli di governo è il principio di sussidiarietà verticale enunciato dall’art. 118 della Costituzione.

Pur essendo originariamente riferito al solo riparto delle funzioni amministrative, per giurisprudenza costituzionale costante (a far data dalla sentenza n. 303 del 2003), tale principio proietta ora la sua portata ordinante anche sul riparto delle funzioni legislative e genericamente normative, informando di sé tutti i rapporti competenziali tra i diversi livelli di governo.

Si tratta di un principio ordinatore che da tempo fa parte del patrimonio comune delle esperienze costituzionali europee, ricorrendo frequentemente nei testi normativi (costituzionali e non), nella giurisprudenza e nella produzione dottrinale della stragrande maggioranza dei paesi europei.

Come testimoniato dall’etimo

subsidium, sussidiario è l’intervento che opera in funzione ausiliare e che evoca quindi l’idea di sostegno e di soccorso. Ciò significa che le competenze di ciascun livello di governo devono avere carattere ausiliare, e quindi eccezionale, rispetto alle competenze del livello o dei livelli di governo sottostanti: si attivano perciò solo se ciò è strettamente necessario per dare soddisfazione ad esigenze unitarie, interessi infrazionabili che per la loro natura l’ente territoriale inferiore non può fronteggiare efficacemente. Di conseguenza, la sussidiarietà impone che in linea di principio tutte le competenze, sia amministrative che normative, siano riservate agli enti locali minori, salvo che non sia assolutamente indispensabile l’azione del livello di governo superiore. È pertanto un criterio flessibile d’allocazione delle funzioni, potendo spostare la linea di confine delle competenze ora verso il basso ora verso l’alto, a seconda delle circostanze, ma sempre nel rispetto del favor di cui debbono godere i livelli di governo inferiori.

Dunque la sussidiarietà è un «meccanismo dinamico» (sent. 303/2003 Cost.) che può imprimere due direzioni diverse al riparto mobile delle funzioni: una "discendente", quando prescrive che di regola tutte le competenze siano allocate verso il basso; una "ascendente", quando in via eccezionale consente che salgano verso l’alto.

Quando esprime un moto ascendente, il principio di sussidiarietà si tramuta nel principio di leale collaborazione (o cooperazione). Per giurisprudenza costante l’ente superiore che acquista la funzione deve esercitarla collaborando lealmente con l’ente che ne è stato spogliato e ne subisce l’esercizio. Deve perciò coinvolgerlo nei suoi processi decisionali in modo più ampio possibile.

In altre parole, la sussidiarietà/leale collaborazione impone che le istanze unitarie, non realizzabili cioè con il solo intervento locale, si realizzino attraverso un’azione quanto più possibile congiunta tra i livelli di governo interessati. La misura del coinvolgimento deve essere tanto più elevata quanto più il conseguimento del fine unitario interferisce con ambiti o interessi locali.

Roma, 24 marzo 2011

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